L’8 settembre del 1943, il giorno in cui e’ stato firmato l’armistizio tra Badoglio e gli americani, eravamo ad Opcina, da poco rientrati dal nostro viaggio in Emilia.
Rientrati a Trieste da Lugo di Romagna eravamo ad opcina e gli Aquino erano ospiti nostri per un breve soggiorno di qualche giorno.
Papa’ capi’ subito che rimanere a Trieste sarebbe diventato pericoloso, che I tedeschi avrebbero occupato l’Italia e che avrebbero ben presto cominciato a rastrellare gli ebrei.
Ricordo che l’8 settembre stesso, nel pomeriggio gia’ incominciavano ad arrivare I tedeschi, marciando e provenienti da Sesana.
Guardando da dietro il muretto della villa dei Pieruzzi, che era di fonte alla nostra, si vedeva un accampamento di soldati italiani. Quello stesso giorno sono venuti dei tedeschi e, in pochi, hanno disarmato i soldati italiani.
Vedo ancora la scena di pochi soldati tedeschi, con I fucili spianati e tutta una fila di soldati italiani che buttavano le armi in un mucchio.
Il giorno dopo siamo partiti.
L’alternativa era andare verso il Sud, sperando in una rapida avanzata degli anglo-americani che stavano lentamente e combattendo risalendo la penisola, o andare verso Milano con la speranza di raggiungere in qualche modo la Svizzera.
Papa’ opto’ per il tentativo di andare clendestinamente in Svizzera.
Un po’ di tempo prima Olga e Giovanni Pinter con Gabi piccolo, da Fiume erano gia’ andati in quella direzione e si erano fermati a Calolziocorte Olgiate, un paese in provincia di Lecco. Non so o non ricordo il perche’. Credo avessero delle informazioni su come contattare i contrabbandieri che facevano espatriare clandestinamente la gente. Ad ogni modo loro erano gia’ a Calolziocorte e abitavano presso una famiglia che ricordo si chiamava Pozzoni.
Noi siamo partiti il 9 di settembre 1943, per raggiungerli a Calolzio.
Il treno andava lentissimo, si fermava in continuazione, era stracarico. La giornata era molto calda. Il treno era pieno di giovani uomini, soldati che avevano abbandonato l’esercito, che era in totale disfacimento.
Era stato firmato l’armistizio con gli alleati, quindi la guerra era cessata; i soldati non avevano ordini perche’ i comandi si erano disintegrati ed anche gli alti ufficiali avevano proprio “mollato il mattone” e se l’erano filata.
Il Paese era pieno di gente che cercava disperatamente di tornare a casa!
I soldati si liberavano delle divise e cercavano abiti borghesi. Molti erano a torso nudo, non avendo niente da indossare.
Correva voce che i tedeschi fossero a Verona ed avessero occupato la stazione e che li’ avrebbero perquisito il treno ed avrebbero arrestato tutti gli uomini giovani per portarli in Germania nei campi di lavoro.
Ad ogni modo ogni tanto il treno si fermava e dei soldati tedeschi percorrevano il treno, ma non ricordo che facessero scendere I soldati. Erano soldati, ma erano ragazzini, forse di 15 o al massimo 16 anni, con grandi fucili e pistole. Si credevano (e lo erano) dei Padreterni; urlavano e davano ordini, ma credo anche per farsi coraggio. A quel punto della guerra chiamavano sotto le armi anche I bambini. Ad ogni modo ogni volta che il treno si fermava e succedeva molto spesso, un mucchio di gente saltava giu’ e si dileguava nei campi di granoturco, che era alto e giallo. Ricordo benissimo questa gente che dopo poco, inoltradosi tra le pannocchie, scompariva alla vista.
A Vicenza i tedeschi iniziarono a percorrere il treno. Erano soldati, ma erano ragazzini, forse di 15 o al massimo 16 anni, con grandi fucili e pistole. Si credevano (e lo erano) dei Padreterni; urlavano e davano ordini, ma credo anche per farsi coraggio. A quel punto della guerra chiamavano sotto le armi anche i bambini.
Arrivati a casa dei Pozzoni a Calolzio ci siamo rimasti per pochi giorni.
Olga e Giovanni, assieme al fratello di Giovanni, Sandro (quello che molti anni dopo corteggiava Dusy, ma per lei non era abbastanza “su”) trovarono un posto in montagna, nella Bergamasca, dove rifugiarsi perche’ molto piu’ defilato.
Pieia e’ un paesino a meta’ monte tra Torre de’Busi e Valcava, che si trova sulla cima del monte. Il tutto e’ vicino a Caprino Bergamasco. Credo che Pieia sia attorno ai 600 metri.
Ci siamo tornati una volta molti anni dopo a fare una gita una domenica. C’era gia’ la strada e siamo arrivati in macchina fino al paese, ma allora c’era solo la mulattiera. La strada si fermava a Torre de’Busi. Li’ c’era uno che aveva i muli e trasportava le cose pesanti fino a Pieia.
A Pieia c’era un bella villa che apparteneva al ricco del paese. In quella villa abbiamo affittato alcune stanze e siamo andati a viverci i 3 Pinter e noi 4 Sacerdoti.
Dopo poco siamo stati raggiunti da:
Magda e sua mamma, la zia Serena
mia nonna Carlotta, la mamma di mamma
Sandro Pinter (fratello di Giovanni) con la giovane moglie Ragendorfer e con i genitori di lei, una deliziosa coppia di signori viennesi e con il fratello di lei Hans.
I signori Ragendorfer erano scappati da Vienna qualche anno prima e la figlia aveva incontrato e da poco sposato Sandro.
Il proprietario della villa ci aveva nel frattempo affittato ancora una casetta di sua proprieta’ li’ vicino.
Noi dicevamo che eravamo sfollati dalla citta’ per via dei bombardamenti, ma certamente tutti avevano capito che eravamo ebrei.
Ricordo che per cucinare la mamma aveva a disposizione un piccola stufa a legna, che serviva anche a riscaldare l’ambiente. Era autunno, siamo rimasti li’ circa dal 15 o 20 di settembre fino al 7 dicembre.
Da Torre de’ Busi a Valcava c’era una funicolare. Noi eravamo a meta’ strada. A Pieia c’erano mele in abbondanza e un’osteria e rivendita di tabacchi dove andavamo a comperare varie cose e probabilmente vino. Era proprio una vecchia tipica osteria dove gli uomini passavano la giornata giocando a carte e a morra. Ricordo ancora le urla mentre buttavano le dita, ad una velocita’ incredibile. Ma come facevano a vedere quante dita aveva mostrato l’avversario e a fare i conti per sapere chi vinceva?
Un problema importante era quello della riserva di insulina per la mamma.
Ne aveva una certa quantita’, ma non si sapeva se sarebbe bastata e cosa ci riservava il futuro. Alcune volte papa’, Ronci ed io siamo andati in giro per i paesi della zona, di farmacia in farmacia a compera tutta l’insulina disponibile.
In un paese vicino c’era uno che sapeva riparare radio. Papa’ si era portato dietro una piccola radio,(piccola si fa per dire, non dimentichiamoci che allora le radio avevano ancora parecchie valvole ed ognuna era grande come una lampadina) per sentire le notizie da Radio Londra che era l’unica fonte di informazione. Naturalmente la radio ad un certo punte smise di funzionare e cosi’ siamo andati nel paese vicino a tentare di farla riparare.
Siamo anche andati in giro in vari paesi a cercare alternative abitative. Papa’ era preoccupato perche’ la villa in cui stavamo era troppo in vista; avrebbe preferito una casa normale, come quelle abitate dai paesani e non la Villa del signore del posto.
Girando, un giorno abbiamo parlato con uno che aveva da affittare una casa, che era cieco e fumava la pipa. Ogni tanto, quando la pipa si spegneva tirava fuori dalla tasca un chiodo con il quale grattava il fornello della pipa, si prendeva nel palmo della mano il tabacco mezzo bruciacchiato e se lo portava in bocca per masticarlo. Ogni tanto sputava per terra e credo di ricordare che lo facesse anche all’interno della casa.
Ad ogni modo parlando con papa’ dell’eventualita’ di affittare la casa, ad un certo punto ha chiesto “non sarete mica ebrei ?” Naturalmente ce ne siamo andati senza portare aventi la trattativa.
Papa’ compi’ 51 anni il primo dicembre del ’43. Eravamo a Pieia e io gli regalai per il compleanno una scatola di sigarette ‘Africa’, che ho comperato nella tabaccheria- osteria. Era una bella scatola, Africa era una marca di sigarette di lusso!
In quel periodo abbiamo letto sul giornale che era uscita una legge per cui tutti gli ebrei dovavano essere arrestati !
Un giorno abbiamo notato una grande attivita’alla funivia, che continuava ad andare avanti ed indietro tra Torre De Busi e Valcava.
Si vedeva che la funivia era piena di soldati tedeschi ed eravamo molto preoccupati che venissero anche dalle nostre parti.
Papa’ era preoccupato per Ronci che aveva 14 anni e ricordo di averlo sentito dire alla mamma che si doveva cercare de vestire e truccare Ronci in modo che sembrasse una vecchia, per paura che i soldati la violentassero.
Per fortuna i tedeschi non sono passati in paese e non si sono avvicinati.
Ad un certo punto Olga, Giovanni e Sandro, o alcuni di loro non so, sono andati a Tirano a fare un contatto con i contrabbandieri per andare in Svizzera.
Non ricordo quale era la somma richiesta a persona. Ricordo che Giocanni e Olga non avevano la cifra richiesta e che papa’ ha prestato loro i soldi. Giovanni ha voluto dare in pegno a papa’ la sua macchiana de scrivere portatile, che era l’unica cosa di valore che avesse.
Il piano era che prima saremmo partiti noi, 4 Sacerdoti e 3 Pinter ed alcuni giorni dopo saremmo stati raggiunti da Magda e la zia Serena, Sandro con sua moglie ed i genitori di lei, con il fratello.
La nonna, che allora doveva avere quasi 80 anni, non sarebbe venuta con noi. Dopo poco e’ venuta a prenderla il marito goy di mia zia Erszy, sorella della mamma, che viveva a Trieste. Si sono nascoste poi in Friuli da qualche parte e non e’ successo a loro niente.
Siamo partiti al mattino molto presto del 7 dicembre 1943.
Credo facesse ancora buio.
Papa’ aveva indossato delle scarpe nuove, era necessario portare pochissime cose e naturalmente si erano prese le cose migliori. Pero’ con le scarpe nuove scivolava. Immagino avessero con la suola di cuoio.
Siamo andati a piedi, lungo la mulattiera, fino a Torre De Busi, da dove siamo proseguiti sul carro fino a Calolziocorte, dove abbiamo preso il treno per Tirano, nell’alta Valtellina.
In treno abbiamo incontrato una professoressa di matematica della scuola ebraica di Trieste.
Gli unici documenti che avevamo erano i passaporti italiani sui quali era stampigliato “Razza Ebraica”.
In realta’ avevamo i passaporti che per inefficienza delle autorita’ italiane non ci erano stati ritirati, a seguito del provvedimento di revoca della cittadinanza italiana. Eravamo in realta’ apolidi.
Per fortuna nessuno ci ha chiesto i documenti anche se credo che era evidente anche ad un cieco che eravamo ebrei. Dopo alcune ore siamo arrivati a Tirano e siamo andati a mangiare da qualche parte.
Abbiamo passeggiato un po’ per far passare il tempo e nel pomeriggio inoltrato, a seguito degli accordi che Giovanni e Olga avevano preso con le guide, ci siamo presentati all’albergo che se ben ricordo si chiamava ‘Misogallo’ o qualche cosa di simile.
Li, a sera inoltrata sarebbero venuti a prenderci per guidarci in Svizzera.
Appena entrati la prprietaria ci ha subito dirottati nelle sue stanze private e ci ha spegato che il ristorante dell’albergo era pieno di tedeschi.
Si e’ fatta dare i nostri documenti e se li e’ infilati nella scollatura.
Ad una certa ora un paio di uomini giovani sono venuti a prenderci e ci siamo avviati con loro, al buio, uscendo da Tirano in direzione della montagna.
Abbiamo camminato qualche tempo, forse un’oretta, fino ad una casa su in montagna, dove ci siamo fermati a riposare alcune ore.
Le guide portavano le nostre valigie. Non so quante ne avevamo, so pero’ che c’era una limitazione abbastanz rigorosa sulla quantita’ del bagaglio.
Gaby Pinter, il figlio di Olga e Giovanni, che aveva pochissimi anni, veniva trasportato in una gerla da una delle guide.
A meta’ della notte ci siamo rimessi in cammino. Non so quanto abbiamo camminato. Penso gran parte della notte. Non ricordo stanchezza, non ricordo freddo anche se eravamo a meta’ dicembre e dovevamo trovarci sicuramente a piu’ di mille metri. Ricordo che c’era neve, ma mi pare non moltissima.
Noi eravamo sette e le guide che ci accompagnavano erano sette.
Ad un certo punto, su in alto abbiamo attraversato il confine che consisteva in paletti a distanza di alcune decine di metri uno dall’altro.
Una delle guide ci fece notare il confine.
Siamo scesi sul versante svizzero per arrivare alla casermetta delle guardie svizzere, accanto alla quale naturalmente sventolava la bandiera.
So pero’ che i miei si presero un tremendo spavento quando videro i soldati svizzeri, che da lontano sembravano vestiti come i tedeschi.
Era ormai giorno fatto.
Alcune guide ci hanno accompagnato fino alla casermetta, dove hanno depositato i nostri bagagli e quindi sono tornati in Italia.
Eravamo arrivati al valico di “Viano”
Tra le guide, due erano ragazzi molto giovani, poco piu’ vecchi di me che allora avevo 12 anni.
Un giorno che da Pieia eravamo andati al mercato settimanale di Caprino Bergamasco, i miei mi avevano comperato una pila a batteria.
Mi piaceva molto. Era una cosa importante.
Durante la notte, camminando, mi era servita per farmi luce.
I due ragazzi guide avevano molto ammirato la mia pila e prima di lasciarci me l’avevano chiesta con insistenza. Io non ho voluto dargliela.
Mi avevano salvato la vita ed io non ho dato loro una pila a batteria!
Non me lo sono mai perdonato. Qualche volta ho pensato addirittura di andare a cercarli. Purtroppo qualche volta si ha l’idea giusta, ma mancano le palle per realizzarla.
Nella casermetta abbiamo ricevuto da mangiare e dopo poco siamo stati raggiunti da altri che avevano appena attraversato il confine in punti diversi. E’ arrivato un gruppo di persone che erano di Cremona. Se ricordo bene c’era una coppia giovane con dei bambini e lui si chiamava Giorgio Soavi, non so era quello che poi e’ diventato famoso e sua sorella con il marito, che non era ebreo.
Gli svizzeri non volevano tenerlo. Volevano rimandarlo indietro. Immaginarsi sua moglie. Poi a furia di pregare e chiedere pieta’ l’hanno tenuto.
In quel periodo la Svizzera teneva gli ebrei e credo anche gli uomini giovani non ebrei che sfuggivano alla necessita’ di entrare nell’esercito repubblichino o allla deportazione in Germania nei campi di lavoro. ( non nei campi di sterminio riservati agli ebrei)
La Svizzera ha seguito, a secondo dei periodi e di come stava andando la guerra per i tedeschi e forse a secondo di quanti soldi gli ebrei americani mandavano per coprire le spese, periodi in cui accettava gli ebrei che entravano clandestinamente, a periodi in cui li respingeva alla fontiera, con la quasi automatica cattura da parte dei tedeschi o dei rupubblichini. Mi pare che in totale la Svizzera abbia accolto circa 30.000 profughi e ne abbia respinto quasi altrettanti!
Poi sono arrivati due uomini ed infine ci hanno portato a Campocologno, che e’ un paese da quelle parti. Gli svizzeri pero’ avevano imposto a papa’ di servirsi di un carro con cavallo per portare le valige. Naturalmente era a pagamento e ricordo che doveva essere particolarmente caro.
Chiesero anche subito ad ognuno quanti soldi e quali valori avesse con se e si dovette consegnare tutto in modo che venisse messo in banca. Oltre ai gioielli e all’argenteria (le posate che ancora abbiamo), papa’ consegno’ alla banca lire per un controvalore di Fr.Sv. di allora 1.436 e un valore stimato in Fr.Sv. 7.000 per I gioielli e 59 monete d’oro. Noi avevamo degli anelli, tra l’altro quello che Rita portava spesso, con quel brillante grande, e che ora e’ di Simona. I gioielli erano stati cuciti nei vestiti, nei cuscinetti delle spalle dei cappotti. Un po’ per ciascuno.
Da Viano, tutti insirme con i nuovi arrivati, ci siamo avviati a piedi averso Cam pocologno, seguiti dal carro con I bagagli.
Qualche tempo dopo abbiamo saputo cosa era successo al secondo gruppo di Pieia.
Pochi giorni dopo di noi si erano messi in viaggio la zia Seren con Magda, Sandro Pinter con la moglie, Hans suo fratello ed i genitori, i signori Ragendorfer.
All’arrivo a Tirano si eranoi divisi in tre gruppetti, la zia Seren e Magda, Sandro ed il cognato Hans e Luzzi, la moglie di Sandro con i genitori, che non parlavano italiano.
Usciti dalla stazione, sotto lo sguardo di Sandro e di Hans i tedeschi avevano fermato ed arrestato Luzzi ed i genitori.
Di loro non si e’ mai piu’ saputo nulla.
Gli altri quattro erano riusciti a raggiungere la Svizzera, seguendo la nostra strada.
In questa prima fase del soggiorno in Svizzera eravamo organizzati in campi di transito che erano gestiti da militari. Cioe’, per esempio a Campocologno eravamo in credo una scuola, in grandi camerate; dormivamo su uno strato di paglia, uomini con uomini e donne con donne.
All’ora dei pasti arrivava un carretto con dei grandi contenitori pieni di minestre e roba simile, che veniva distribuita da soldati. Il cibo arrivava da cucine da campo militari. Non si poteva uscire e dopo qualche giorno si veniva spostati nel campo successivo. Cosi’ da Campocologno siamo andati credo a Poschiavo, dove c’e’ quello splendido laghetto in cui si specchia il monte triangolare e poi a Coira deve ci siamo fermati qualche giorno di piu’. Gli spostamenti venivano fatti in treno, in vagoni riservati a noi e sempre accompagnati dai soldati. Tutti in fila, con qualche soldato con il fucile davanti e qualche altro dietro. Ma senza violenza, in modo molto civile.
Si continuava a dormire sulla paglia in cameroni.
Credo che dopo Coira siamo saliti fino a Basilea dove ci siamo fermati per un mese.
Basilea era quello che era chiamato “campo quarantena”. Non so cosa questo significasse. Dicevano che in quell periodo controllavano i nostri documenti o che ne so.
A Basilea eravamo sistemati in una vecchia fabbrica di birra, in centro alla citta’.
Qui la situazione logistica era migliore.
C’erano stanzoni su vari piani. Mi pare che i primi due erano per gli uomini e poi altri due per le donne. Si dormiva su pagliericci, cioe’ sacchi individuali di paglia, stesi per terra, uno accanto all’altro. Naturalmente papa’ ed io dormivamo vicini.
A Basilea il campo era grande, credo ci fossero circa 300 persone, perche’ mi pare di ricordare che in ogni salone si era in circa 70.
C’era una sala da pranzo dove si consumavano i pasti che erano quasi esclusivamente minestroni pieni di patate. Tutti mangiavano molte patate e la conseguenza era che di notte si faceva moltissima pipi’. Al mattino ci si raccontava quante volte ci si era alzati durante la notte. I gabinetti erano al piano terreno, dove anche ci si lavava.
I lavandini erano costituiti da un lungo tubo orizzontale, sostenuto da dei trespoli di metallo a circa un metro e mezzo da terra, nel quale erano stati praticati dei buchi e distanza regolare di circa un metro uno dall’altro. Dai buchi fluiva in continuazione acqua che si raccoglieva sul pavimento, da cui poi defluiva negli scarichi. In questo modo molte persone potevano lavarsi contemporaneamente.
Nel campo c’era gente di tutti i tipi e di tutte le nazionalita’. In gran parte erano ebrei, ma non solo. Non so come e perche’ c’era un gruppo piuttosto consistente di russi, non ebrei ed anzi piuttosto primitivi. Non so da dove erano saltati fuori. Qualcuno di loro lavorava in cucina come cuoco. Un gruppetto dormiva nel dormitorio del primo piano, mentre noi eravamo al secondo.
Prima di partire da Pieia, papa’aveva molto insistito per mettere in valigia due lenzuola. Diceva che in caso di necessita’ poteveno essere molto utili, coprendosi inclusa la testa per riscaldarsi utilizzando il calore del fiato e per fare dei vestiti, soprattutto femminili in caso di necessita’.
A questo punto utilizzavamo le lenzuola, uno papa’ ed io e l’altro la mamma e Ronci, per coprire almeno la parte superiore dei nostri pagliericci in modo da appoggiare la testa su qualche cosa di piu’ pulito. Per coprirci avevamo le coperte di cui eravamo dotati.
Una notte, tornando da non so quale ennesima pipi’, papa’, mezzo addormentato era entrato nello stanzone al primo piano e vedendo qualche cosa di bianco si era steso su un pagliericcio, che pero’ era stretto. Dopo poco si e’ accorto che stava dormendo accanto al cuoco russo che aveva usato uno straccio bianco come cuscino.
Gli uomini giovani facevano vari lavori tra i quali anche i camerieri che portavano sulle lunghe tavolate i bidoni di minestra e la distribuivano con dei mestoloni. Io, pur essendo molto giovane, lavoravo con loro. Anche Sandro Pinter, con il quale ci eravamo riuniti nel frattempo, faceva lo stesso lavoro.
Un giorno, non so perche’ e in quale occasione, la cucina aveva preparato un cena del tutto eccezzionale e buonissima. Grandi fette di pane messe in forno con una copertura di formaggio. C’erano due fette a testa.
Sandro serviva un tavolone di alsaziani o russi e, con un colpo di testa e rischiando di venir io credo ucciso se se ne accorgevano, decise di darne uno solo a testa al suo tavolo, riservando quanto restava al gruppo di noi camerieri! Credo che nessuno di noi abbia sentito la propria coscienza. Ce li siamo mangiati felici e contenti.
In quel periodo mamma e’ stata ricoverata all’ospedale di Basilea, non perche’ stesse particolarmente male, ma per regolare il diabete che, dopo tutte le peripezie, immagino avesse proprio bisogno di un po’ di manutenzione. Il tutto per iniziativa del medico del campo. Un paio di volte ci hanno anche accompagnto a trovarla; dopo un po’ e’ rientrata.
Una volta ricordo che ci hanno portato a fare il bagno, ai bagni pubblici. Abbiamo attraversato tutta Basilea in colonna, con i soldati in testa ed in coda.
Tornando a Basilea, moltissimi anni dopo, ho tentato di ritrovare la strada dov’era la fabbrica di birra. Non ci sono riuscito. Chissa’ dov’era.
Da Basilea siamo andati a Lucerna, al campo che si chiamava “Feldsberg” ed era gia’ gestito da civili. Il Capocampo era un rifugiato.
Qui a Lucerna siamo rimasti tre mesi.
Il campo era gestito da civili. Tutti i lavori necessari erano fatti dagli internati. Io facevo il cameriere.
Si era alloggiati in camere cerdo per famiglia o per coppia.
Il campo era sistemato sulla cima di una collinetta, alla periferia della piccola citta’ di Lucerna e si poteva uscire ed andare in giro per la citta’. Forse solo a certe ore del giorno, non so.
Mi pare che il campo consistesse di un certo numero di palazzine, forse era un complesso alberghiero di cui la Svizzera era piena, ma non poteva utilizzare a causa della guerra e dell’assenza di turismo.
Nel periodo in cui si stava a Lucerna si trovavano le destinazioni definitive. I bambini in eta’ scolare potevano scegliere se andare presso famiglie che li avrebbero ospitati e mandati a scuola o andare in vari collegi e istituti. I giovani venivano mandati in campi di lavoro dove si occupavano di agricoltura e simili. Le persone anziane, ammalate, quasi sempre in coppia, come mamma e papa’, venivano mandati in campi, che di solito erano ospitati in alberghi. I rifugiati dovevano curavano i lavori necessari al mantenimento del campo. Cosi’,Ronci ed io optammo per collegi, non fidandoci di essere affidati a famiglie sconosciute e mamma e papa’ furono destinati a Vicosoprano, un bellissimo posto in montagna, vicino al Passo del Maloja, tra Chiavenna e St. Moritz.
Anche qui la mamma e’ stata per un periodo all’ospedale, ma ancora non perche’ stesse male, ma per, diciamo, ‘manutenzione’.
Curiosando tra vecchie carte ho scoperto che, per il periodo in cui eravamo in questi campi, la Svizzera ha addebitato al conto di papa’ in banca Fr. 3 a testa al giorno per Basilea e 3.50 al giorno a testa per il periodo di Lucerna. Effettivamente a Lucerna non dormivamo piu’ su pagliericci per terra, ma su letti.
Quando ho lasciato il Felsberg, il capocampo ha voluto darmi un certificato di benemerenza, che ancora conservo da qualche parte, in cui mi elogiava per il lavoro di cameriere fatto nonostante il fatto che non avessi ancora l’eta’ richiesta e per averlo fatto bene, ecc. ecc.
Un bel giorno, con sul petto attaccato un bel cartello con nome ed indirizzo, sono salito su un treno che mi ha portato a Roveredo, in val Mesolcina, non lontano da Bellinzona, ma gia’ nel Canton Grigioni, nel collegio S.Anna dei Reverendi Padri Guanelliani. (cioe’ di don. Luigi Guanella).
C’era don Gatti che era il rettore, don Mascetti che era vecchietto e non so cosa facesse, un paio di giovani preti che si chiamavano i Prefetti e che dormivano nelle camerate assieme a noi, qualche suora che si occupava della cucina e della biancheria e qualche altro insegnante che veniva da fuori.
Gli allievi erano credo quasi tutti figli di contadini. Alcuni continuavano a fare i contadini anche in collegio e anzicche’ venire a scuola, curavano le vacche del collegio e facevano altri lavori del genere. Raramente venivano in classe e puzzavano di stalla.
La mattina la sveglia era data dal Prefetto del mio dormitorio che passeggiando avanti e indietro tra i letti, a voce altissima diceva:” Dolce cuore di Gesu’, fa’ che t’ami sempre piu’; Dolce cuore di Maria, fa’ che si salvi l’anima mia!” I ragazzi svegliandosi si inserivano in questo coro che dopo aver ripetuto il tutto alcune volte, finalmente smetteva, mentre noi andavamo a fare la pipi’ ed a lavarci i denti e la faccia.
Il Prefetto ogni tanto annusava un collo qua e la’ per verificare se era stato lavato. Se no, si era rimandati a lavarsi.
Il Prefetto dormiva nella camerata, ma il suo letto era contornato da tendine.
Ogni tanto si faceva la doccia, ma con le mutande. Era proibito togliersele.
Eravamo parecchi ebrei, al collegio St.Anna. Io credo almeno una ventina.
Noi eravamo esonerati dall’andare ogni mattina a messa e dal recitare le preghiere in classe e a mensa.
Un giorno mi hanno mandato a chiamare perche’ dovevo andare alla Polizia. Li’ mi hanno spiegato che si erano accorti che non avevano le mie impronte digitali. Me le hanno prese, ogni dito separatamente e poi insieme le quattro dita della mano destra e le quattro dita della mano sinistra.
Un giorno mi ha mandato a chiamare il Rettore, don Gatti.
Mi ha ricevuto nel suo studio, mi ha fatto sedere e mi ha fatto un lungo discorso, un po’ confuso, in cui si e’ sforzato di spiegarmi come nascono i bambini, in qualche modo uscendo da una apertura che si forma nella pancia della mamma.
Per fortuna io sapevo gia’ chi era l’assassino, se no non l’avrei capito, ma in fondo e’ da elogiare questo tentative di educazione sessuale ante litteram.
Per Pesach sono stato mandato a Lugano, dove sono stato ospite del direttore dell’Innovazione, naturalmente ebreo e padre di un paio di ragazzini della mia eta’.
Siamo stati al tempio, abbiamo fatto il Seder e poi sono tornato in collegio.
Ronci in quel periodo era in un collegio di suore, vicino a Lugano.
L’estate del 1944 l’ho passata a Vicosoprano, dove erano internati mamma e papa’.
Vicosoprano, a circa mi pare 1200 metri d’altezza e’ un paesino di montagna, che in tempi normali e’ luogo di villeggiatura e forse oggi di sports invernali. Allora c’era un grande albergo, mi pare l’albergo Elvezia, dedicato agli internati.
Le persone facevano i lavori necessari alla gestione. Mamma stirava ogni giorno un certo numero di ore e papa’ per un periodo faceva il giardiniere e per un altro faceva parte della squadra degli sbucciatori di patate. Immaginarsi le chiacchiere e le discussioni questi ebrei facevano ogni giorno sbucciando patate!
Quasi tutta la gente era o anziana o ammalata, insomma non in situazione da poter lavorare fisicamente.
In quei mesi estivi, in cui io naturalmente facevo il cameriere, ho imparato a come si distribuisce il burro. Ogni mattina per colazione ogni persona riceveva 20 grammi di burro. Noi camerieri, prima della colazione, avevamo l’incarico di tagliare in cinque parti i panetti da 100 grammi. Ma tagliavamo in pezzi un po’ piu’ piccoli le prime quattro porzioni. In questo modo la Quinta parte risultava almeno di 30 grammi e naturalmente era destinata ai camerieri.
In quel periodo mi sono preparato per il bar-mitzva’, che avrei dovuto fare a novembre.
A Vicosoprano c’era un coppia giovane tedesca, mi pare di ricordare che lui era ammalato, ma non so di cosa. In realta’ conduceva una vita normale e loro mi portavano spesso a fare delle lunghe passeggiate nei boschi. Erano specialisti nella raccolta di noccioline, di cui quella zona e’ piena. Qualche volta mi invitavano anche nella loro camera, dove c’erano altre persone della loro eta’ e mi offrivano un po’ di punch, leggermente alcolico.
Il lui di questa coppia era un chazan o qualche cosa del genere e mi ha insegnato a leggere il primo pezzo della mia parascha’. E me l’ha insegnato molto bene.
Una notte durante quell’estate c’e’ stato un violentissimo nubifragio ed un torrente ha causato terribili danni ad una frazione del paese. Mi ricordo che siamo andati a vedere una casa quasi demolita dal torrente, che ha letteralmente ‘attraversato’ la casa, in parte demolendola.
Finita l’estate sono rientrato in collegio e dopo poco, tutti noi e cioe’ mamma’, papa’ e Ronci siamo stati invitati a Berna dalla Comunita’ per festeggiare il mio bar-mitzva.
Mamma, papa’ e Ronci erano ospitati in un albergo ed io invece da una coppia anziana, che credo non avesse figli, i signori Bollag.
Persone che ricordo con affetto, stavano in una bella villa, avevano la donna fissa e per mangiare avevano un tavolo su ruote, che veniva avvicinato alle loro due poltrone, in modo che loro mangiavano seduti in poltrona.
Erano molto carini e pieni di attenzioni per me e per i miei.
Io mi sono fermato a Berna per piu’ di una settimana, i miei mi pare un po’ meno.
Il Sabato al tempio c’era tutta la comunita’ ed io sono stato molto festeggiato.
Il venerdi’ sera siamo stati tutti invitati, anche i Bollag, dal rabbino di Berna, dr. Messinger.
Il rabbino di Berna, o sua moglie non ricordo con esattezza, il venerdi’ sera quando ce ne siamo andati da casa loro, HANNO CHIAMATO PER NOI L’ASCENSORE!
Pero’ il pomeriggio del Sabato, dopo il bar-mitzva, eravamo tutti seduti nel salotto di casa Bollag e papa’ ed il sig. Bollag fumavano un sigaro. Quando dopo un po’ e’ arrivato il rabbino, la signora Bollag ha chiesto a papa’ ed a suo marito di mettere i sigari tra le due finestre, in modo da non offendere il rabbino.
Durante la breve visita tutti e sicuramente anche il rabbino, si sono accorti che nuvolette di fumo salivano dietro al vetro della finestra. Poi, a rabbino partito, abbiamo molto riso.
Una sera la signora Bollag mi ha portato con lei ad un concerto di una cantante, in una casa privata. C’era parecchia gente, doveva essere una specie di societa’ per concerti semi privata. La cantante mi era sembrata un po’ debole di voce, ma naturalmete ho detto che mi era piaciuto moltissimo. Ho avuto la grande soddisfazione pero’ di sentire la signora Bollag rispondere al marito che, al rientro a casa le aveva chiesto com’era la cantante: “Una vocetta”.
In quei giorni ho raccontato ai miei ospiti, della mia vita nel collegio dei preti e della poca gioia che questa mi procurava.
Fatto sta’ che io non sono mai piu’ tornato a Roveredo, ma sono stato mandato a Krattigen, vicino al lago di Interlaken, in una hachschara’ dei Bene’ Akiva.
Ronci mi ha raggiunto li’ e mamma e papa’ sono stai trasferiti da Vicosoprano a Spiez, sempre sullo stesso lago, a walking distance da Krattigen!
La comunita’ di Berna e’ stata fantastica, in quattro e quattr’otto hanno sistemato tutto.
Krattigen era un ex albergo, o qualche cosa di simile, isolato in mezzo a campi ed a case di contadini. Era a mezza costa in una zona collinosa sul lago, circa a meta’ strada tra Spiez e Leissigen.
Era gestito in modo autonomo da un gruppo di madrichim, qualcuno svizzero e gli altri rifugiati. Ma a parte Ronci ed io, tutti gli altri erano ragazzi ungheresi che erano stati deportati a Bergen Belsen e che erano stati liberati e mandati in Svizzera, assieme alle famiglie, a seguito dello scambio “ebrei contro camion”, concordato tra I rappresentanti dell’Ischuv, gli inglesi e americani ed i tedeschi. Non ne so molto, ma mi pare di ricordare che ne avessero discusso al Cairo. Pero’ poi la cosa non ha vuto seguito e credo che quelli che erano con me allora possano considerarsi proprio dei miracolati.
Allora non ne parlavamo noi ragazzi, so solo che i loro familiari erano anche in Svizzera, in un campo non lontano da Krattigen, ma non ricordo di averne mai visto alcuno.
Non so quanti eravamo, penso una trentina o giu’ di li tra ragazzi e ragazze. Io appartenevo al gruppi dei piccoli, credo quelli sotto i 14 anni ed eravamo la minoranza. I grandi, i “bogrim”,a cui apparteneva Ronci, erano di piu’ di noi.
Il capo era un ragazzo svizzero, Chatty, che probabilmente aveva poco piu’ di vent’anni; poi c’era una coppia di ungheresi, sposati da pochissimo, Zizzusch si chiamava lui.
Tutti erano religiosi, del Bene’ Akiva e la vita era strettamente religiosa. C’era un Tempio dove al mattino ed alla sera si recitavano le preghiere, il Sabato era strettamente rispettato e la cucina era assolutamente kascher.
Facevamo tutto noi ed in piu’ coltivavamo dei campi, tagliavamo il fieno, cantavamo le canzoni ebraiche e tutto era ebraismo e sionismo. Non so se studiavamo anche discipline scolastiche, non ricordo. La lingua era il tedesco. Sia Ronci che io lo sapevamo piu’ o meno ed in quei mesi lo abbiamo ovviamente molto migliorato.
Siamo stati li’ circa dal dicembre 1944, al giugno 1945 quando siamo rientrati in Italia.
Vedevamo spesso mamma e papa’, che erano a poca distanza da noi e che o andavamo noi a trovare o venivano loro.
E’ stato un periodo molto bello, abbiamo imparato a conoscere l’ebraismo, il sionismo ed il kibuzzismo.
Durante l’inverno, quando c’era la neve, avevamo qualche vecchio paio di sci con i quali mi divertivo a scivolare e poi nella bella stagione andavamo a fare il bagno nel lago. Ma lavoravamo anche seriamente i campi. Una volta tagliavo il fieno con una grande falce. Ad un certo punto la stavo affilando con la pietra, avevo la falce in piedi come si deve fare, ma mi e’ scivolata e mi ha fatto un grande taglio sulla mano destra. Perdevo molto sangue e mi hanno portato a Spiez dal medico, il dott. Luthi, che mi ha dato tre punti, credo con un po’ di anestesia locale. Ho ancora la cicatrice.
A Krattigen mi sono molto innamorato di Riftschu, un po’ piu’ vecchia di me. Mi ricambiava comsi’-comsa’. Ma allora le cose non erano come oggi, tutto era molto romantico/platonico.
C’erano tra’ l’altro due fratelli, il piu’ piccolo dei quali e’ poi stato il primo Ambasciatore Israeliano all’ONU.
Finita la Guerra siamo rientrati a Trieste con mamma e papa’, anche se sia io che Ronci avremmo voluto seguire gli altri ragazzi ed andare in Israele direttamente. Il viaggio di ritorno ha richiesto una settimana.
Si viaggiava con i mezzi piu’ strani, camion, treni, corriere, carri e quello che si trovava.
In Italia nulla funzionava regolarmente e tutto era affidato al caso. Ricordo che abbiamo dormito in scuole, capannoni vari, qualche volta su letti o materassi ed un volta ricordo su un pavimento di piastrelle durissime.
Per fortuna era estate, ma immagino che per mamma e papa’ deve essere stato un viaggio molto duro.
L’ultima cosa che ricordo di quel viaggio e’ che alla stazione ferroviaria di Udine il treno con il quale eravamo arrivati si e’ fermato abbastanza fuori dalla stazione e che qualcuno ha detto che dalla stazione stava partendo un treno per Trieste.
Avevamo dei bagagli e portarli correndo, per un percorso piuttosto lungo, lungo il binario, e’ stata una delle cose piu’ faticose che ricordo nella mia vita.
Siamo finalmente arrivati a Trieste dove non sapevamo cosa avremmo trovato.
Non so cosa abbiamo fatto appena arrivati, ma ricordo che percorravamo via Carducci in direzione del negozio e che papa’ era piu’ avanti di noi.
Bbiamo trovato Olga e Gabriella in negozio, con poca merce, con una lampada a petrolio al posto della luce elettrica che non c’era.
Noi non avevamo dove stare, i l nostro appartamento di viale Sonnino era occupato da altra gente e Olga ci ha dato la sua soffitta ed e’ andata a dormire da Gabriella.
Siamo stati li’ per alcuni giorni, non molti, quelli che occupavano viale Sonnino se ne sono andati in pochi giorni e noi abbiamo potuto rientrare in casa.
In viale Sonnino abbiamo ritrovato tutta la nostra roba, compreso i mobili.
L’Ufficio Alloggi, cosi’ si chiamava l’ufficio che si occupava delle case vuote da occupare, aveva fatto riunire tutte le nostre cose in una stanza, che era stata chiusa e quelli che vivevano in casa avevano quindi a disposizione tutto l’appartamente meno quella stanza.
Ha dell’incredibile, la fortuna che anche in questo abbiamo avuto. Tutti gli ebrei hanno avuto tutto portato via, derubato dai tedeschi o dai fascisti o dalla gente. Sembra che a noi non siano mai venuti a cercarci, altrimenti avrebbero portato via tutto. A Fiume, a casa di Rita hanno portato via tutto, a parte la casa che poi e’ stata bombardata ed e’ andata distrutta ; Ma li’ hanno rubato anche tutto in negozio. E’ vero che in nostro negozio non ci apparteneva da anni ed evidentemento la finta vendita a Olga e Gabriella era ritenuta vera.
Olga e Gabriella hanno immediatamente restituito tutto, ma non solo. Nei due anni che eravamo stati via, dal ’43 al ’45 avevano tenuto da parte gli esigui gadagni, dopo naturalmente aver trattenuto le loro retribuzioni, e con quanto avevanoi ad un cero punto avevano acquistato un terreno da qualche parte ad Opicina e un po’ di bracialetti e cose d’oro. Naturalmente papa’ ha lasciato a loro quanto avevano acquistato.
So che papa’ aveva lasciato della merce nascosta da qualche parte, presso loro conoscenti e che poi con quella merce si e’ ripresa l’attivita’ del negozio.
La casa di Opcina era stata occupata dai tedeschi e poi, per un breve periodo da un ufficiale americano, che l’ha liberato molto velocemente.
In cantina ho allora trovato quello spadino di gala, di qualche ufficiale tedesco, che ho ancora e che attualmente e’ appeso in studio a Herzlia. Infatti ha in rilievo una croce uncinata.
Insomma, ci siamo salvati tutti noi, almeno la stretta famiglia, abbiamo ritrovato il negozio, funzionante, abbiamo ritrovato I mobili di casa e le nostre cose ed abbiamo ripreso la vita li’ dove stava per essere interrotta per sempre.
Con estrema tristezza penso a quanto e’ successo alla famiglia di Rita. Hanno perso un figlio, hanno perso la casa e tutto quanto conteneva, hanno perso il negozio e tutto quanto conteneva, hanno dovuto venire a vivere a Trieste con come unico mezzo di sussistenza la pensione dell’esercito americano per il figlio morto.
Io avevo perso due anni di scuola.
Eravamo in luglio ed ho incominciato a prepararmi per fare ad ottobre gli esami di ammissione al la prima Liceo Scientifico.
Avevo un anno di vantaggio rispetto ai miei coetanei, avendo saltato la quinta elementare e facendomi ammettere alla prima liceo sarei stato in regola per la mia eta’. E cosi’ feci e ad ottobre iniziai a frequentare la IF del Liceo Scientifico Guglielmo Oberdan.
L’estate successivo mi ammalai ai polmoni.
Non era proprio una tubercolosi, ma qualche cosa di molto vicino. Si chiamava « ghiandole polmonari ».
Ad ogni modo dovetti interrompere la scuola e trascorrere alcuni mesi in montagna, a Merano, dove l’aria era adatta alla cura delle affezioni polmonari e nutrirmi particolarmente bene ed abbondantemente, secondo le teorie di quel periodo.
Voglio ricordare anche Armando Belleli.
Era un ragazzo povero, corfioto, intelligente e serio, balbettava un po’.
Era piu’ vecchio di me di quattro o cinque anni ; era religioso, ma non fanatico.
Mi insegnava un po’ di tutto, ma sopratutto ebraismo, un po’ religione, un po’ storia, un po’ preghiere. Veniva a casa in viale Sonnino, non so, immagino un paio di volte alla settimana ; la cosa principale che mi ha insegnato e’ che la testa deve essere fatta a cassetti. Quando ti serve la matematica, apri il cassetto della matematica, quando ti serve la storia apri il cassetto della storia e cosi’ via. Forse non e’ una grande cosa, ma a me e’ sempre sembrato importante e lo ricordo con molta nostalgia.
Non e’ mai tornato da Auschwitz.